Ferrara: Ecco il mio testamento biologico
Giuliano Ferrara Venerdì 31 Ottobre 2008
L’arcitaliano
Se me lo chiede la direzione del giornale, contratto alla mano, allora il mio testamento biologico lo scrivo senza problemi di pudore o di superstizione. Il punto di partenza è che non voglio essere aiutato a morire in vita, spero invece di essere aiutato a vivere la mia morte. Spero mi si abbandoni alla mia libertà di morire, alleviando per quanto possibile la sofferenza che precede la morte e legittima la vita. Se lo mettano bene in testa quelle strane persone, Corrado Augias & C, che girano nelle loro rubriche con degli strani kit pieni di veleni appositi, facendo finta di essere europei e protestanti, atei e materialisti, mascherando umane paure e ridicole ideologie nulliste sotto le sembianze di una procedura baciata dal vento del progresso e della consapevolezza scientifica.
Non voglio il suicidio assistito, non voglio la loro assistenza. Se impazzisco di disperazione, ci penso da solo a fottermi. Aiuto a morire i miei animali che non sanno di morire sebbene sentano la fine. Io invece sento e so, dunque sto con il poeta Vincenzo Cardarelli che voleva morire, sì, ma non essere aggredito dalla morte.
Spero di essere circondato da persone che mi amano. Questa è la cura di cui non avrei mai abbastanza. Questo conforto dell’umanità è il sostituto di quel riposo in Dio che mi spetta e non mi spetta, in quanto non credente. Che amino me o, attraverso di me, l’immagine divina restituita da un essere umano, non fa una grande differenza. Anzi: alla fine, verso la fine, è la stessa cosa.
Qualcuno dirà: non fare il furbo. Parlaci in modo asciutto del fine vita. Spiega la procedura che solleciti sia messa in opera alle strutture sanitarie e dicci quali norme sono quelle giuste secondo te, parla la lingua del sanitariese. Ma io non posso. Spiegherò bene ora che cosa intendo come mia ultima volontà, renderò omaggio al narcisismo di un’epoca in cui anche il testamento non riguarda più gli eredi ma il trapassato stesso e il suo trapasso, ma non credo esista il fine vita: esiste il morire. Non esiste il fine cura: esiste l’abbandono disperato, la fine dell’amore, il rifiuto della carità per abbondanza ideologica.
Se finisco in coma, vi prego di lasciarmi così come sto, come Nino Andreatta e Ariel Sharon, come Eluana Englaro. Se vi sarà difficile curarmi, se sarete assaliti dalla disperazione, disidratatemi pure, affamatemi, non ve ne vorrò, perché è una prova dura, e non sono lì con voi a cercare di superarla insieme, quindi non accampo diritti assoluti. Ci sono, e non ci sono. Ci siete, e non ci siete. Ma non fate stupide leggi, e feroci, che prescrivano di disidratare e affamare la gente che dorme pesante, limitatevi se del caso a un comportamento socialmente egoistico, senza farne un chiavistello per affermare una concezione non cristiana della vita e della cura, aprendo la porta al Diavolo con il grimaldello della norma. Finché c’è qualche buon cristiano che mi porta un bicchier d’acqua, lasciatelo venire.
Le cure, le macchine, la vita artificiale… Decidete voi a spanne, con senso di umanità, che è qualcosa di diverso dall’astrattezza della giustizia. Decidete voi. A me la vita artificiale non piace, anzi mi spaventa, ma se devo fissare qui una volontà so che sarà menzognera, so di non sapere quanto attaccato alla vita potrei essere in futuro. Ascoltate quel che ho da dirvi, ed eseguitelo con compassione, se avrò la coscienza e le facoltà di comunicare con voi.
Lasciatemi riposare in pace per sempre se ve lo chiederò, quando sia un ritrovato tecnico a impedirlo, e io non voglia ricorrervi. Ma non prendetemi a esempio per fare le leggi, non mandatemi in onda, non affidatemi a un partito politico, non stabilite norme di cui la società potrebbe pentirsi quando, così raramente, alza gli occhi al cielo. l
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